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Traiano, Marco Ùlpio.

Imperatore romano. Figlio di un senatore, già governatore della Betica e console in Siria e Asia, entrò nell'esercito come tribuno militare e vi rimase per dieci anni, dando prova di grande attitudine al comando. Intraprese poi la carriera civile, il consueto cursus honorum della classe dirigente, giungendo al grado di console ordinario nel 91. Era governatore della Germania Superiore quando, con l'uccisione di Domiziano (96), si estinse la dinastia dei Flavi e l'anziano Nerva, salito al trono per volere del Senato, dovette trovare un successore che fosse affidabile, rispettato dall'esercito e non coinvolto nelle faide romane. La scelta cadde su T., che Nerva adottò solennemente come figlio dandogli il cognome e la dignità di “cesare”. Morto Nerva (98), T. si trovò automaticamente alla testa dell'Impero. Subito dopo l'elezione, egli inviò al Senato romano assicurazioni di amicizia, ma differì il suo arrivo a Roma di due anni, durante i quali consolidò l'occupazione romana sul territorio germanico e rafforzò le linee di difesa del Reno. L'imperatore giunse infine a Roma, con piccolo seguito e senza ingresso trionfale. Probabilmente si dovette a T. la costituzione di una nuova guardia imperiale, gli equites singulares Augusti, formata da elementi scelti provenienti dalle popolazioni meno romanizzate dell'Impero, istituita allo scopo di porre un freno al potere dei pretoriani. Durante il tempo di permanenza nella capitale, T. riuscì a consolidare la propria autorità di governo, rendendosi gradito al popolo, alla classe dirigente e a quella militare. La sua azione in campo economico, amministrativo e della giustizia fu così illuminata da far ricordare l'età di T. come un'età d'oro (fonte importante per i primi anni del Regno traianeo è il Panegirico di Traiano, di Plinio il Giovane). Egli operò per rendere più sicuri e agevoli gli scambi commerciali nei confini dell'Impero, alleviò alcune imposte e condonò non pochi arretrati, supplendo alle mancate entrate erariali con la vendita all'asta di gran parte degli innumerevoli beni che, per eredità, dono o confisca, i precedenti imperatori avevano accumulato nel loro patrimonio. Novità assoluta, nel campo dell'amministrazione pubblica, fu l'istituzione degli alimenta, ossia di un fondo di previdenza sociale destinato a fanciulli e fanciulle poveri nati in Italia. Il sistema funzionava così: la cassa imperiale concedeva prestiti a basso interesse a proprietari terrieri delle città italiane, i quali dovevano a loro volta destinare gli interessi al fondo in favore di fanciulli o fanciulle povere della città. Oltre alla finalità sociale, il sistema mirava quindi a un rilancio dell'agricoltura italica. Incaricati della vigilanza sul fondo di previdenza sociale furono i curatori delle grandi vie imperiali, per le zone toccate dalle vie stesse: questi curatores viarum divennero perciò anche praefecti alimentorum. Analoghe istituzioni sorsero poi, su questo modello, per opera di privati, nelle province. Sul piano militare, T. condusse personalmente le guerre contro i Daci (101-102, 105-106), già combattuti da Domiziano senza grande successo, che minacciavano il confine del Danubio. Ridotta a provincia romana, la Dacia fu da T. arricchita di opere difensive e viarie, tra le quali la via danubiana che completava il percorso del fiume dalle foci alle fonti. Egli favorì il ripopolamento della regione facendo affluire numerosi coloni, e compagnie di imprenditori presero a organizzare lo sfruttamento delle miniere dei Carpazi e il trasporto del grano per via fluviale. Nello stesso anno dell'annessione della Dacia, Cornelio Palma, generale di T., aveva condotto a termine un'operazione analoga, abbattendo il Regno arabo dei Nabatei, già vassallo di Roma, e costituendo la nuova provincia di Arabia. Nel pensiero di T., come la Dacia avrebbe dovuto proteggere le province danubiane, così l'Arabia era destinata a coprire il confine meridionale della Siria e della Giudea. Il ricchissimo bottino dacico consentì la realizzazione di lavori pubblici a Roma, a Ostia e in altre parti dell'Impero. Tra questi, la costruzione di un nuovo acquedotto che portava l'acqua dal Lago di Bracciano nella XIV regione urbana (Trastevere) e delle grandiose terme traianee di cui restano tracce sul Colle Oppio, il restauro del Circo Massimo e del tempio di Venere Genitrice. Ma l'impresa edilizia più importante del tempo fu la realizzazione del Foro che da T. prese il nome. Sulla vasta piazza rettangolare del Foro, cinta da portici, si affacciava in tutta la sua lunghezza maggiore la Basilica Ulpia, a due piani e a cinque navate. Dietro di essa si elevava la celeberrima colonna spiralata e istoriata con scene delle due guerre daciche, dedicata nel 113; nei pressi sorgevano poi gli edifici della Biblioteca Ulpia: uno destinato alla sezione greca, l'altro alla latina. A Ostia T. ordinò i lavori per liberare dall'interramento il porto di Claudio e per costruirne un secondo, ricavato scavando un vasto bacino esagonale comunicante con il primo porto e con il fiume. Altri lavori portuali compì a Civitavecchia, a Terracina e ad Ancona. Ad Ancona e a Benevento si conservano i suoi archi trionfali. Non poche cure dedicò alle strade, in Italia e in tutte le province; in particolare, curò il rifacimento dell'ultimo tratto dell'Appia (da Benevento a Brindisi), che prese perciò la denominazione di Via Traiana. Il problema di politica interna rappresentato dai cristiani fu da T. affrontato in base ai principi del diritto romano. Come ci informa la direttiva emanata dalla Cancelleria imperiale in risposta alla richiesta di Plinio il Giovane, governatore di Bitinia e Ponto nel 113, in nessun caso si doveva tenere conto delle denunce anonime, si potevano istituire processi ai cristiani solo dietro precise accuse, senza perseguitarli d'ufficio, e condannarli solo se ostinati nell'errore. Questa condotta, intransigente ma non persecutoria, durò più o meno fino ai tempi di Decio, allorché si passò alle persecuzioni vere e proprie e all'automatica punizione. Nel 114, dopo nove anni di pace, T. intraprese, più che sessantenne, la guerra più impegnativa del suo Regno, quella contro i Parti, ritenendo forse che l'Impero fosse pronto a riprendere la grande politica orientale di Cesare e di Antonio, realizzando la conquista di tutto l'Oriente, dall'Eufrate al Tigri e alle rive del golfo persico. T. approfittò dei contrasti scoppiati a proposito della successione al Regno di Armenia per muovere alla conquista dell'Armenia e della Partia a capo di forze ingenti (nove legioni, di cui una richiamata appositamente dalla Pannonia, senza contare gli ausiliari e i contingenti alleati). Proclamata l'Armenia provincia romana, T. scese poi a Sud, passando in Mesopotamia, senza trovare quasi resistenza da parte del re partico Cosroe. Nella primavera del 116, assicuratasi la cooperazione di tutti i minori principi locali e la sicurezza dei rifornimenti attraverso la flotta, che accompagnava la marcia dell'esercito scendendo lungo il fiume Eufrate, riprese l'attacco a fondo contro l'Impero partico. Valicato il Tigri e traversata la Siria, i Romani conquistarono Ctesifonte, la capitale nemica; anche l'Assiria, come già l'alta Mesopotamia, venne proclamata provincia romana. La marcia di T. verso le foci dei due grandi fiumi mesopotamici subì tuttavia un arresto: la Mesopotamia e l'Assiria insorsero in armi contro l'invasore, che dovette inoltre impegnarsi nella sanguinosa repressione di una violenta insurrezione ebraica scoppiata non solo in Palestina, ma anche negli ambienti giudaici della diaspora (specie in Egitto e a Cipro). L'imperatore riconobbe l'impossibilità di realizzare il disegno della conquista totale e si decise a incoronare con le proprie mani un nuovo re dei Parti. Ma al re cliente di Roma i Parti preferirono un sovrano liberamente eletto da loro, e a T. non rimase che ripiegare in Siria. Ammalatosi, affidò l'esercito al parente P. Elio Adriano (il futuro imperatore); messosi in viaggio per tornare a Roma, morì improvvisamente in Cilicia. La sua fama di ottimo principe si trasmise per tutto il Basso Impero e alimentò la leggenda che intorno a lui fiorì sin dall'VIII sec. Secondo tale leggenda T., fermato da una vedova mentre procedeva a cavallo alla testa del suo esercito, ne esaudì le preghiere condannando l'uccisore del figlio della donna (che secondo una versione era figlio di Traiano stesso). Questo atto di giustizia avrebbe indotto papa Gregorio Magno a pregare Dio per la salvezza dell'anima dell'imperatore pagano. La prima parte della leggenda, anticamente attribuita ad Adriano, trovò sostegno nella falsa interpretazione di un bassorilievo romano in cui si vede una donna, simboleggiante una provincia, inginocchiata davanti a T. a cavallo; la storia della salvezza di T. fu accolta da san Tommaso, secondo il quale Dio, ascoltando le preghiere di papa Gregorio, avrebbe richiamato in vita per breve tempo T., in modo che potesse convertirsi e quindi salvarsi. Dante cita l'episodio della vedova come esempio di umiltà (Purgatorio, X, 73-93), e colloca T. tra gli spiriti giusti e pii, nel cielo di Giove (Paradiso, XX, 43-48). La leggenda fu più volte ripresa in latino e volgare, per esempio nel Novellino, e anche la scultura e la pittura se ne appropriarono come esempio di giustizia: nei secc. XV-XVI era spesso raffigurata nelle aule dei tribunali in Germania e nei Paesi Bassi (Italica, od. Santiponce, presso Siviglia 53 - Selinunte, in Cilicia 117).